Piano Sano Lontano

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In questo articolo scopriremo Cervo, uno dei Borghi più Belli d’Italia, da un punto di vista musicale. Conosceremo infatti, in base a una lunga intervista, un personaggio molto importante per la città: Sándor Végh, il fondatore del Festival Internazionale di Musica da Camera.

Ascolta l’articolo nel podcast:

 

Nei primi anni ’60 un celebre violinista capitò a Cervo, e rimase folgorato dalla sua bellezza proprio come succede a tanti turisti che ogni anno vengono a visitare questo gioiello della Liguria di Ponente. Quel musicista era l’ungherese Sándor Végh, tuttora molto amato a Cervo perché qui decise di fondare, nel 1964 un Festival, diventato un suggestivo evento musicale che richiama ogni anno migliaia di “buongustai della cultura”.

Tra poco scopriremo un ritratto del maestro Végh, un ritratto che andrà molto oltre le note biografiche, e ci farà conoscere il maestro da più vicino, attraverso le sue parole e riflessioni sulla vita e sulla musica. Lo sentiremo anche rievocare i propri ricordi di una Transilvania ormai molto diversa da com’era nella sua infanzia.

Il nostro tour per le viuzze colorate di Cervo s’intreccerà a un tour virtuale tra le atmosfere mitteleuropee durante il quale toccheremo città come Budapest e Salisburgo, e incontreremo personaggi come Béla Bartók, Pablo Casals, Zoltán Kodály.

Iniziamo con un giro in città, ricalcando la passeggiata che probabilmente avrà fatto anche il maestro Végh, esattamente come la maggior parte dei viaggiatori che approdano qui. 

Dopo esserci ambientati in questo modo, ascolteremo le storie e le riflessioni del grande musicista.

Trekking urbano a Cervo 

Il tour vero e proprio parte da Piazza Castello, che raggiungiamo dopo una bella camminata tra le caratteristiche stradine che salgono al borgo. In alternativa, è possibile raggiungere il centro storico anche in auto, ma parcheggiare può diventare un po’ complicato, soprattutto in alta stagione.

Quando siamo davanti all’imponente castello dei Clavesana, ripensiamo al momento in cui siamo arrivati nei pressi di Cervo e abbiamo visto il borgo per la prima volta dall’Aurelia. Da lì saremo rimasti colpiti dalle mille tonalità di arancione e di rosa delle case arroccate sulle pendici delle colline. Un vero caleidoscopio di colori caldi esaltati dall’interminabile azzurro del mare che fa da sottofondo.

Questa è anche l’immagine che i pescatori cervesi, partiti per la pesca del corallo, conservavano nel loro cuore durante la lontananza. Ricordi arancioni e rosa da custodire durante le lunghe trasferte verso coste anche distanti, come quelle della Corsica e della Tunisia, per poi portare a casa i preziosi coralli delle stesse sfumature, e comporre l’album delle storie che resero importante Cervo sin dai tempi più antichi.

Partendo dal castello, percorriamo via dei Clavesana ammirando la splendida veduta sul mare. Dopodiché risaliamo verso il centro per via dei cavalieri di Malta, per approdare nella piazzetta alle spalle del castello.

Un dedalo di stradine colorate ci conduce attraverso epoche storiche lontane. Quella in cui Cervo fu feudo dei cavalieri di Malta, quella del dominio della Repubblica di Genova e quella degli attacchi dei pirati saraceni, attratti dai notevoli traffici commerciali cervesi del corallo.

Raggiungiamo così il monumento simbolo del borgo, la chiesa di San Giovanni Battista, conosciuta come la “chiesa dei Corallini”, perché eretta anche grazie ai proventi della pesca del corallo. L’edificio, costruito tra il XVII e XVIII secolo, è il maggior monumento barocco del Ponente ligure. È nella scenografica piazza dei Corallini, antistante la chiesa, che si svolge dal 1964 il prestigioso Festival Internazionale di Musica da Camera che negli anni ha visto esibirsi artisti del calibro di Martha Argerich, Yehudi Menuhin o Stefano Bollani.

Per tornare al castello dei Calvesana, possiamo fare diversi percorsi, ad esempio quello per via Grimaldi Salineri che ci riporterà in via dei Cavalieri di Malta, nelle immediate vicinanze del castello. In alternativa, possiamo anche fare il giro largo per la circonvallazione a Levante.

Il ritratto del Maestro Sándor Végh

Sándor Végh nacque nel 1912 a Kolozsvár, importante città ungherese della Transilvania, oggi appartenente alla Romania, che aveva dato i natali anche a Mattia Corvino nel 1443 e al celebre matematico János Bolyai nel 1802. Della sua città natale e delle influenze culturali ricevute lì, il maestro parlò così:

“Faccio fatica a parlare di quei tempi, che appartengono a un capitolo ormai chiuso della mia vita. La scuola che frequentavo da piccolo a Kolozsvár, il Collegio calvinista, fondato nel 1600, oggi non esiste più. Ai miei tempi Kolozsvár conservava ancora la sua importanza culturale: il suo teatro, il teatro dell’opera, così come il conservatorio erano di altissimo livello.

I miei mi avevano regalato il violino perché costava meno del pianoforte e già da bambino suonavo insieme a molti dilettanti del luogo, e fu in quel periodo che conobbi i quartetti d’archi di Beethoven. Poi ci furono delle persone che mi avevano sentito suonare, in particolare c’era un medico che suggerì a mia madre di mandarmi a studiare a Budapest. Inizialmente mia madre non voleva lasciarmi andare, ma visto che questi nostri conoscenti insistevano sul fatto che sarebbe stata la cosa giusta da fare, alla fine mia madre acconsentì e giunsi così a Budapest, all’Accademia Musicale. Ma tutto era partito da Kolozsvár.”

Ricordi della Transilvania

Anche se Végh non tornò più a vivere a Kolozsvár, la bella città della Transilvania lo accompagnò per tutta la sua vita riportandolo idealmente alle sue origini ovunque si trovasse nel mondo.

“Ogni musica, ogni buona musica è connessa all’antichità. La buona muisca ha sempre delle radici. La musica è una forma di spiritualità, e ogni popolo ha la sua spiritualità, ogni popolo ha origini diverse. Questo all’Accademia Musicale ci venne inculcato con Kodály e Bartók. Io la musica l’ho sempre prima percepita e solo in un momento successivo la sapevo. La conoscenza, l’intelletto aiutava soltanto a cogliere l’inafferabile, che è l’intuizione.”

L’importanza delle origini per il maestro non era solo una questione geografica, ma anche temporale, grazie al legame indissolubile che conservò con i propri ricordi, anche musicali, dell’infanzia.

“Una volta Pablo Casals mi chiese quali musiche ricordavo della mia infanzia. Ricordavo le ninnenanne di mia madre, e anche le canzoni cantate dalle nostre inservienti a Kolozsvár mentre pulivano le  finestre. All’epoca grazie a Dio non c’era né la radio, né la tv, ma le persone cantavano molto di più di oggi. Cantavano anche mentre lavoravano. Così io, ascoltando una delle ragazze cantare, mi facevo un’idea del suono del suo villaggio. Poi arrivava un’altra ragazza e cantava canzoni diverse. Io ero un bambino, e quando chiesi alla nuova ragazza come mai lei non cantava le canzoni che cantava la ragazza che c’era prima di lei, mi rispose orgogliosa che lei veniva da un altro villaggio, e che anche i loro abiti tradizionali da festa erano diversi. A quei tempi era ancora molto sentito un certo campanilismo, le persone non avevano ancora rinunciato al proprio villaggio e alle proprie tradizioni. Secondo me questa è la base di tutto, anche dell’arte, uno non deve rinunciare a se stesso, non deve vendersi.”

Diventare un musicista famoso?

A proposito della propria fama, Végh disse: “Più una persona arriva in alto, e più si sente piccolo. È come quando si scala una montagna, tanto più ci si arrampica in alto, tanto il panorama diventa più bello, e la veduta più ampia. Un grande uomo è per forza modesto: dal momento che l’argomento in cui eccelle è vastissimo, lui si sente necessariamente piccolo. Quando uno fa musica, l’importante non è se poi diventa una star, o se raggiunge la fama, ma che viva per la musica.”

Sándor Végh nella sua vita conobbe molti personaggi celebri della musica, a partire da Kodály che fu suo professore di composizione all’Accademia Musicale di Budapest, e Bartók, che oltre a Pablo Casals fu probabilmente il maestro che ebbe la maggiore influenza su di lui. Bartók insegnava pianoforte all’Accademia dal 1907 e Végh ricordò il suo carisma con queste perole:

“Quando uno vive in una determinata epoca, non la vive mai in maniera consapevole. Quando studiavo all’Accademia, era del tutto naturale che incrociassi Béla Bartók per i corridoi, o che Kodály uscisse da una porta. Era normale che fossimo lì insieme un gruppo di studenti che frequentavamo le lezioni di Leó Weiner, tra cui Annie Fischer o György Solti che oggi sono i portabandiera della musica. All’epoca nessuno di noi poteva sapere cosa sarebbe diventato l’altro. Ma ci piaceva la musica, eravamo affezionati a Weiner, e studiavamo tanto. Succedeva che se m’incamminavo per il corridoio, a un certo punto sentivo una strana vibrazione dietro di me. Mi giravo ed era Bartók. Aveva uno sguardo talmente penetrante, era così carismatico che si percepiva la sua presenza anche se si trovava dietro di noi.”

L’amicizia con Béla Bartók

Negli anni a venire Sándor Végh divenne amico di Bartók. Nel 1935 fondò il suo primo quartetto d’archi, il Nuovo Quartetto d’archi Ungherese. Bartók stesso consegnò la partitura del suo Quartetto d’archi nr. 5 ai musicisti della nuova formazione affinché ognuno potesse copiarsi la propria parte.

”Bartók assistette alle nostre prove finali. Durante le prove non diceva quasi nulla e non interrompeva il nostro lavoro. Ma il suo silenzio era accompagnato da cenni di gradimento i quali rappresentavano per noi un incoraggiamento maggiore dell’apprezzamento di qualsiasi altro ascoltatore. Alla fine dell’ultima prova si sedette vicino a noi, ci disse che era molto soddisfatto del nostro lavoro, poi discutemmo qualche piccolo dettaglio e alla fine diede la sua benedizione per la prima mondiale del nostro quartetto al Festival Internazionale di Musica Contemporanea di Barcellona.”

Bartók e Beethoven

Al Concorso Internazionale di Ginevra vinse il primo premio con il Quartetto Végh, fondato dal maestro nel 1940. Le opere di Bartók erano i capisaldi anche di questa formazione, e non mancavano mai soprattutto nel 1956, quando, nel periodo della rivoluzione ungherese i loro concerti terminavano sempre con il Quartetto d’archi nr. 6 di Bartók, brano che secondo Végh esprimeva più di ogni altro la sofferenza, il lutto e la tristezza scaturiti da quei drammatici avvenimenti. 

In quel periodo Végh si dedicava all’interpretazione degli ultimi quartetti d’archi di Beethoven. Di quell’esperienza musicale parlò così: ”Sentivo già da giovane un certo parallelismo tra questi due compositori. Notavo questo parallelismo principalmente tra le loro personalità, entrambi così diretti e intransigenti, nel loro profondo e nobile orgoglio, nel loro amore per la libertà e il coraggio – tutte qualità che si rispecchiano nella loro musica.

Inizialmente i problemi che incontravo nell’approccio con gli ultimi quartetti d’archi di Beethoven mi sembravano enormi, al punto da farmi paura. Invece i problemi nella musica di Bartók erano per me familiari. E fu proprio questa familiarità con il linguaggio musicale di Bartók a farmi imboccare la strada giusta verso quell’altro linguaggio, più antico e più ostico, degli ultimi quartetti d’archi di Beethoven.

Nell’indagare e nel notare questi parallelismi, iniziai a sentire una particolare connessione tra i sei quartetti d’archi di Bartók e gli ultimi sei quartetti d’archi di Beethoven, così decisi di fare un ciclo Beethoven – Bartók. Iniziavamo ogni volta con Beethoven e poi eseguivamo il quartetto d’archi ”corrispondente” di Bartók. Dopo l’intervallo suonavamo sempre Mozart, e qui c’era nuovamente qualche simmetria, dal momento che decidemmo di suonare i sei quartetti d’archi che Mozart aveva dedicato a Haydn. Sentivo che con questa scaletta facevamo i nostri migliori concerti.”

Un modo umano di suonare

Quando gli chiedevano della sua ars poetica, Végh rispondeva spesso andando a ritroso nel tempo per spiegare il suo rapporto con la musica partendo dagli inizi. “All’Accademia Musicale di Budapest ebbi la fortuna di trovare un clima molto aperto nei confronti delle individualità artistiche, non c’era l’intenzione di creare degli artisti fatti con lo stampino, al contrario: le manifestazioni artistiche individuali erano consentite e incoraggiate. Tutto quello che so, l’ho imparato lì.

Non insegnavano un metodo di suonare dicendo che quello era il metodo, l’unico metodo corretto, immune da errori. Ciò che oggigiorno si pretende dai musicisti, di suonare senza imperfezioni come delle macchine, è una cosa ipocrita. Oggi è come se dessero i punti a chi fa meno errori durante l’esecuzione del proprio brano. Io ho suonato con molti grandi musicisti, con Pablo Casals, con Edwin Fischer e altri, e facevano degli errori anche loro, ma i loro errori erano umani. L’Accademia musicale fu il mio alma mater a cui devo tutto. Durante i miei peregrinaggi pluridecennali in Occidente, non ho imparato niente di nuovo.”

Come violinista, Sándor Végh l’ultimo concerto lo tenne all’età di 75 anni. Dopo, visto che un’artrite alla spalla non gli consentiva più di provare con l’intensità necessaria, preferì dedicarsi all’attività di direttore d’orchestra, in particolare con la Camerata Academica des Mozarteums Salzburg, che dirigeva a partire dal 1978.

”Non potevo vivere senza la musica, non posso vivere senza. Il rapporto con la musica mi aveva accompagnato per tutta la mia vita, e anche quando non potevo più suonare il violino ai concerti, volli trovare un modo per coltivare questa mia connessione alla musica, anche se in una forma diversa. In fondo la musica non cambia se viene diretta, suonata al violino o ballata.”

Arte e spiritualità

Per Sándor Végh la musica è sempre stata una questione spirituale. ”L’arte non è reale. Se un artista sente che due per due fa cinque, allora fa cinque. Non esiste un approccio intellettuale, metodico a determinare la musica. Non è possibile spiegare il vero senso del suonare. L’attività musicale non è una cosa che si può vivisezionare, se ci si mette a vivisezionarla, si finisce per ucciderla. La saccenza non porta a nulla di buono. Uno deve avere un rapporto molto profondo con la musica, con qualsiasi tipo di musica, ed è questo ciò che io ho sempre sentito di avere, in tutta la mia vita.”

Di questo suo rapporto profondo con la musica parlava anche in un’accezione interdisciplinare.

”Io ho imparato molto da Sir Laurence Olivier, che è stato un grandissimo attore. Mi ha colpito la sua capacità di calarsi nei ruoli, perché in realtà succede la stessa cosa anche a noi musicisti. Quando suoniamo, ci caliamo in una determinata epoca, e in quel momento tutto si trasforma intorno a noi. Cambiano i nostri movimenti, cambia il suono stesso del violino. I periodi storici si riflettono anche nella musica, così come nella lingua: c’è il presente, c’è il passato, anzi, esiste anche il piano temporale del vate che mira al futuro. Sono proprio questi dettagli raffinati a modificare il tono, l’atteggiamento, tutto quanto, fino ai movimenti stessi del violinista o del direttore d’orchestra. La musica è una forma di espressione in qualche modo inconsapevole, intuitiva.”

Uno sguardo al futuro – L’ultimo dei mohicani

Sándor Végh ha sempre ricordato con stima e affetto i suoi professori, e sarà anche per questo che lui stesso riteneva importante tramandare le proprie conoscenze ai giovani. “Io rappresento un ramo della cosiddetta scuola ungherese, una famiglia i cui esponenti sono ormai quasi tutti morti. Quindi sono rimasto come l’ultimo dei mohicani a cercare di tramandare lo spirito che questa scuola rappresenta. Per fortuna i giovani hanno le antenne giuste e desiderano assimilare questa tradizione, vogliono che essa faccia parte della loro spiritualità e del loro modo di esprimersi.”

Il maestro trovava molto stimolante e anche divertente l’attività di insegnare. Ne parlava così:

“La giovinezza è come un foglio bianco che non è stato ancora scarabocchiato. Lavorare con i giovani è per me un piacere, ed è bello vedere che amano fare musica. La gioia e il divertimento sono la base dell’attività musicale, infatti in diverse lingue si parla di suonare col verbo giocare. E guai se non fosse così! Se uno si dedica a un mestiere senza amarlo, non è cosa buona nemmeno se lo fa in maniera puntuale. Fortunatamente i giovani con cui lavoro mi hanno creduto su questo punto, sono riuscito ad accendere un fuoco in loro e questa è una cosa grandiosa. È sempre fantastico quando i giovani credono agli anziani, che sono spesso ritenuti obsoleti. Ma lo spirito non ha età, anzi, forse da anziani brilla ancora di più.”

Ma come si insegna musica ai giovani di oggi?

“Forse io sbaglio, ma non faccio praticamente nulla in maniera consapevole, né nella musica, né nell’insegnamento. Certo, ci sono certi punti fermi, certi assiomi su cui non transigo, ma per il resto, il modo in cui io trasmetto certe conoscenze, dipende in gran parte anche da chi ho davanti, è una questione aperta. L’argomento è lo stesso, ma le variazioni sul tema possono essere tante. La musica non la si può spiegare, la lingua non è sufficientemente espressiva e fine per poterla spiegare. Se io dicessi precisamente cosa fare, indicassi le modulazioni e le pause, la musica verrebbe eseguita di testa, e quella non sarebbe più una cosa vera. Ci deve essere invece un modo affinché queste cose avvengano in maniera naturale.

Ho suonato con Pablo Casals per più di un decennio, abbiamo anche fatto dei dischi insieme. Quando alle prove c’era qualcosa che non lo convinceva di ciò che facevo, non diceva mai “fai in questo modo”. Invece si metteva in disparte e suonava per se stesso ciò che avrebbe voluto sentire da noi. Chi aveva orecchio, coglieva questo suo modo raffinato di comunicare, questo suo approccio rispettoso nei confronti di ogni individuo. In questo stava la sua grandezza, nella capacità di dare l’esempio. Insegnare significa dare l’esempio.

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